Tra interno borghese e arredo urbano

Queste le opere di Diego Valentinuzzi

Quella dei pittori è, ai giorni nostri, una razza data per estinta perché schiacciata dall’arte totale, dal ripudio di una tecnica ormai portata ai suoi limiti. La parentesi della Transavanguardia ha richiamato l’attenzione sulla manualità, sull’aura, su di un’arte scaldata al calore(colore) del sentimento, ma di vera pittura neanche a parlarne, Il citazionismo ha lavorato come spregiudicato e tecnicissimo metalinguaggio con pochi spostamenti semantici riconducibili al minimo scarto della regola. E se in ogni caso si è tornati a parlare di pittura ci si è resi conto che alternare caldo/freddo,dolce/salato e quant’altre antinomie ed opposizioni lo spirito della critica puo’ escogitare, si finisce sempre per creare degli sbarramenti artificiali. In ogni logica la schiavitù del meccanismo a due valori è finito da tempo, l’arte (ma soprattutto la critica) sapranno rinunciare a catalogare la pratica creativa secondo un’axiologia binaria che non ha più niente da esprimere?

Si dice questo perché davanti a pittori come il monfalconese Diego Valentinuzzi si ha l’impressione che le vie della pittura siano infinite come quelle dell’arte concettuale e che qualche volta ci si arresti di fronte a incroci inattesi, ha quadrivi d’ indecisione, ad attraversamenti dubitativi. Ad un solo primo sguardo sulle sue opere ci si accorge di quanto esse siano imbevute dello spirito del tempo. Le figure più tipiche e riconoscibili dell’immaginario collettivo della contemporaneità vi appaiono in tutta chiarezza : provengono dalla televisione, dalla cartellonistica pubblicitaria, così come dai riflessi delle vetrine e dai collages via via atomaticamente stratificati nella memoria di un artista nato all’alba della civiltà industriale e da allora in poi destinato a incontrarsi, scontrarsi,integrarsi con le forme del consumo, c on i valori comunicativi e simbolici dei prodotti, con la finish del consumatore. Sempre ai margini ed oltre il pubblico dell’arte; sempre sulla soglis tra galleria e grande magazzino, interno borghese e arredo urbano. Valentinuzzi rivela così il luogo del suo lavoro creativo nel metaterritorio dei media, nel linguaggio universale delle merci, nella tradizione del moderno. Gettando anche soltanto uno sguardo distratto sui suoi quadri (ma va subito detto che no è questo lo sguardo che essi pretendono) ci si accorge di come gli stessi riferimenti culturali dell’ artista (che di volta in volta rimandano a seduzioni surrealiste o metafisiche, a viaggi della fantasia nei territori di una classicità rivissuta con straordinaria libertà e spregiudicatezza, a trasformazioni favolose, a giochi mediologici, a colpi di scena o effetti speciali) lo portino a dare alla finzione una incantata presenza, solenne, rituale, non antica e non moderna; semplicemente, profondamente vera.

Mi pare che, nelle opere di Diego Valentinuzzi, dietro lo specchio dei colori e delle forme, dietro la qualità patinata dell’immagine, dietro la pienezza comunicativa delle inquadrature, vi sia un segreto da scoprire. Credo (e su questo mi vorrei soffermare in forma di elogio) che sulla superficie dei suoi quadri si celebri un rituale di morte tra creazione artistica e realtà; laddove per la prima si intende la produzione di senso da parte del soggetto (che è però coscienza di appartenere al ruolo dell’artista, alla storia che si è incarnata e ancora vive nella sua “persona”) mentre per la seconda si intendono i materiali di cui il fare creativo si nutre: oggetti naturali e oggetti artificiali ormai assorbiti in una rete di relazioni radicalmente artificializzata. In essa sono “ irredite” sia le immagini della vita quotidiana, ormai inscindibili da quelle dell’industria culturale di massa, sia le immagini dell’arte; gli oggetti d’uso comune e quelli custoditi nei musei, sacralizzati dalla storia; i prodotti della moda e quelli del culto.

Si direbbe dunque che il materiale che Valentinuzzi espone ( intellettualmente riordinato ed ironicamente impreziosito dal lavoro di un artefice che non spreca nulla nella gratuità e non si stanca di considerare la pittura come una pratica sublime di dimensioni e ambizioni enormi) sia il tentativo estremo di salvaguardare la propria persona dalla perdita della coscienza di sé, della propria funzione di testimone ( il testimone è appunto il garante della memoria collettiva). Ma, pur sentendo necessario il ritorno alla visibilità conforme delle cose, alle certezze del figurativismo, egli mostra di non voler dimenticare il presente, Ed è bene avvertire l’altezza ideativa e compositiva che si delinea sullo sfondo di una ricerca formale, quella di Diego Valentinuzzi, capace di non fuggire la complessità irrisolta del presente, capace di non eludere i bisogni ed i desideri che si incarnano nella distanza drammatica tra esperienza vissuta e rappresentazione

 

 

a cura di Andrea Dipré

 

Diego Valentinuzzi

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